Valore bitcoin in bilancio aziendale: conviene inserirlo?
Indice dei contenuti
- E' possibile inserire criptovalute in bilancio?
- Valore bitcoin inserito nel bilancio aziendale secondo gli orientamenti internazionali
- Valore bitcoin in azienda: cosa dice l'Italia?
- Come sono definite le rimanenze?
- Criptovalute come asset da inserire in bilancio?
- Valore bitcoin in bilancio: attività immateriale o rimanenza?
Negli articoli precedenti abbiamo tentato di proporre una disamina dell’attuale inquadramento fiscale delle criptovalute. Come più volte sostenuto, la normativa non ha ancora definito delle linee guida per inquadrare in maniera puntuale i cripto asset. Oggi possiamo solamente basarci su alcune pronunce dell’Agenzia Entrate, che se non ci schiariscono le idee, perlomeno forniscono una direzione da seguire.
Se fino ad ora abbiamo analizzato la tassazione delle criptovalute per i soggetti non imprenditori, proviamo in questa sede a ragionare su come un’azienda possa detenere tali beni, su quale valore di bitcoin dovrebbe iscrivere a bilancio e se questo costituite reddito imponibile soggetto a tassazione.
E’ possibile inserire criptovalute in bilancio?
Come anticipato, nel nostro ordinamento non troviamo una qualificazione giuridica univoca delle criptovalute; l’unica definizione che abbiamo è quella di “valute virtuali” valevole ai fini della normativa antiriciclaggio. Questa incertezza generale si riflette anche a livello contabile, poiché il nostro codice civile non fornisce alcuna indicazione in merito alla classificazione in bilancio dei cripto asset. A livello internazionale il tema della classificazione in bilancio delle criptovalute è stato affrontato dall’Ifrs Interpretations Committee (“Comitato IAS/IFRS”). Secondo il Comitato IAS/IFRS, le valute virtuali possono essere tipizzate in due diverse categorie all’interno del bilancio aziendale: attività immateriali o rimanenze.
Attività immateriali
Se l’azienda che detiene gli asset li possiede non come beni tipicamente destinati alla vendita nel normale svolgimento della sua attività, potrà inserire il valore dei bitcoin o delle altre criptovalute tra le immobilizzazioni immateriali. Nello specifico, secondo lo IAS 38 parla di attività immateriale con riferimento a “un’attività non monetaria identificabile priva di consistenza fisica”. Essa è identificabile se:
- – è separabile, ossia può essere separata o scorporata dall’entità e venduta, trasferita, data in licenza, locata o scambiata;
- – deriva da diritti contrattuali o da altri diritti legali.
Le valute virtuali soddisferebbero la definizione di attività immateriale di cui allo IAS 38 in quanto si tratta di attività non monetarie, oltre a rivelarsi attività separabili, vendibili o scambiabili individualmente.
Valore bitcoin inserito nel bilancio aziendale secondo gli orientamenti internazionali
Rimanenze
Se i beni detenuti sono destinati alla vendita nel normale svolgimento dell’attività, allora la situazione cambia leggermente. L’azienda potrà inserire il valore di bitcoin o delle altre criptovalute nella voce delle rimanenze. Lo IAS 2 delinea le caratteristiche di tali beni, ovvero quelli
- – posseduti per la vendita nel normale svolgimento dell’attività;
- – impiegati nei processi produttivi per la vendita o
- – sotto forma di materiali o forniture di beni da impiegarsi nel processo di produzione o nella prestazione di servizi.
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Successivamente al Comitato IAS/IFRS, l’Aicpa ha pubblicato un documento secondo il quale le caratteristiche delle valute virtuali corrispondono a quelle delle attività immateriali, ma è da escludersi che le stesse siano assimilabili a strumenti finanziari o a rimanenze. L’Aicpa non è nient’altro che l’istituto rappresentativo della professione contabile statunitense. Dalla lettura della pubblicazione emerge innanzitutto che le criptovalute non possano essere sicuramente considerati strumenti finanziari. Questo perché:
- – non soddisfano la definizione di cash o cash equivalent, dato che non hanno corso legale e non sono autorizzate da Stati sovrani; e
- – non sono classificabili come attività finanziarie, dato che non rappresentano un investimento in capitale di terzi e non conferiscono diritti a ricevere denaro o altri strumenti finanziari.
Sempre secondo l’associazione statunitense, le valute virtuali non possono mai considerarsi rimanenze, in quanto mancherebbero di consistenza fisica. E’ di conseguenza intuibile quale sia l’inquadramento delle criptovalute secondo i contabili a stelle e strisce: il valore di bitcon o di altre criptovalute dovrebbe essere inserito all’interno delle attività immateriali.
Valore bitcoin in azienda: cosa dice l’Italia?
Dato uno sguardo alla panoramica internazionale, verifichiamo cosa riportano i principi contabili italiani. Cerchiamo cioè di capire come potremmo inserire in bilancio i cripto asset qualora decidessimo di acquistarli con la nostra azienda. Con riferimento ai principi contabili italiani, sembra comunque doversi escludere che le valute virtuali siano qualificabili come:
- – disponibilità liquide (OIC 14);
- – crediti (OIC 15);
- – strumenti finanziari (OIC 32)
Analogamente all’orientamento internazionale, sembra che all’interno del bilancio le criptovalute possano essere inquadrate come attività immateriali o rimanenze. Le immobilizzazioni immateriali sono definite nell’OIC 24, par. 4, come “attività normalmente caratterizzate dalla mancanza di tangibilità (…) costituite da costi che non esauriscono la loro utilità in un solo periodo ma manifestano i benefici economici lungo un arco temporale di più esercizi. Comprendono:
- – oneri pluriennali (costi di impianto e di ampliamento; costi di sviluppo);
- – beni immateriali (diritti di brevetto industriale e diritti di utilizzazione delle opere dell’ingegno; concessioni, licenze, marchi e diritti simili)”.
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I benefici economici futuri derivanti da un’immobilizzazione immateriale includono i ricavi originati dalla vendita di prodotti o servizi, i risparmi di costo o altri benefici derivanti dall’utilizzo dell’attività immateriale da parte della società. Proseguendo nello specifico, l’OIC 24 definisce i beni immateriali come “beni non monetari privi di consistenza fisica e rappresentati da diritti giuridicamente tutelati“. Un bene di questo tipo
- – è separabile, ossia può essere separato dalla società e può essere venduto, trasferito, dato in licenza o in affitto, scambiato; oppure
- – deriva da diritti contrattuali o da altri diritti legali, indipendentemente dal fatto che tali diritti siano trasferibili o separabili dalla società.
Non si riscontrano quindi sostanziali differenze tra la definizione di “attività immateriali” prevista nei principi contabili internazionali (IAS 38, par. 8) rispetto a quella di “beni immateriali” contenuta nel nostro ordinamento (OIC 24, par. 9).
Come sono definite le rimanenze?
Le rimanenze sono definite dal principio contabile italiano (OIC 13) come “beni destinati alla vendita o che concorrono alla loro produzione nella normale attività della società”. Anche in questo caso non sono riscontrabili differenze di inquadramento tra ambito nazionale e non.
Corroborata dalle linee guida internazionali, emerge quindi la duplice possibilità delle aziende italiane di inserire in bilancio il valore di bitcoin o delle altre criptovalute, trattandole alla stregua di:
- – “immobilizzazioni immateriali” laddove presentino la potenzialità di generare benefici economici futuri per l’impresa e siano destinate ad essere possedute come attività e non come beni per la vendita nel normale svolgimento dell’attività d’impresa; a differenza delle
- – “rimanenze”, che sono considerate beni alla cui produzione o commercio è diretta l’attività dell’impresa. Questa categoria è utilizzabile laddove l’impresa le destini tipicamente alla vendita nel normale svolgimento della sua attività.
Criptovalute come asset da inserire in bilancio?
Le modalità di contabilizzazione delle criptovalute sopra delineate sembrano, tuttavia, entrare in contraddizione con la posizione assunta dall’agenzia delle Entrate nella risoluzione n. 72/E del 2/9/16 e nella successiva risposta n. 14 del 28/9/18. In tali sedi, l’Agenzia delle Entrate ha affermato che le valute virtuali dovrebbero essere trattate alla stregua di valute tradizionali anche ai fini contabili. Se fosse mantenuta questa linea, a livello contabile ci sarebbero non poche conseguenze. Da un lato, bisognerebbe aggiornare il valore dei bitcoin iscritti in bilancio al cambio vigente al 31/12 di ogni anno, e dall’altro registrare eventuali valori positivi (quindi tassabili) o negativi (quindi deducibili) all’interno del conto economico del proprio bilancio. Proviamo a fare un esempio.
Pensiamo ad un’azienda che acquista in data 1 giugno un bitcoin a 40.000 € e lo tratta alla stregua di una valuta estera, rispettando quanto indicato dall’Agenzia Entrate. In data 31/12 quello stesso bitcoin vale 50.000. Come si dovrà comportare l’azienda? Dovrà aggiornare il valore del proprio bitcoin a 50.000, registrare un capital gain di 10.000 e su quest’ultimo pagare le tasse. Ipotizziamo che al 31/12 dell’anno successivo il valore del bitcoin sia tornato a 40.000. Cosa sarebbe successo? Fondamentalmente l’azienda avrebbe anticipato delle imposte che a posteriori non sarebbero state dovute.
Valore bitcoin in bilancio: attività immateriale o rimanenza?
Sembra che questo tipo di comportamento debba essere rispettato da quelle società che svolgono attività di acquisto/vendita a pronti di criptovalute per conto della clientela (i cosiddetti “exchange”); mentre potrebbe rivelarsi non adeguato per le società che investono in criptovalute per finalità diverse. (fonte: “L’insidia dell’Ires per chi investe nelle criptovalute”, IlSole24ore).
La dottrina è unanime nel riconoscere a queste ultime la possibilità di classificare le criptovalute in una delle due categorie più volte menzionate: immobilizzazioni immateriali o rimanenze, e non valute estere. Per la prima dovranno essere rispettati i limiti di deduzione dell’ammortamento e considerare il realizzo di plusvalenze/minusvalenze (artt.103, 86 e 101 Tuir).
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Per quanto concerne le rimanenze andranno considerati i criteri di carico/scarico ed ovviamente valutati i ricavi realizzati a seguito della cessione (artt. 92 e 85 Tuir).
In nessuno dei due casi (immobilizzazioni immateriali o rimanenze) sarebbe contemplata la tassazione di eventuali plusvalori non realizzati, cioè plusvalori derivanti da un mero processo valutativo. Si eviterebbe di attribuire rilevanza fiscale a valori solo maturati e di anticipare imposte in assenza di reali guadagni. (fonte: “L’imposizione diretta sulle criptovalute per i soggetti passivi imprenditori, IlSole24ore). In altre parole, si dovrebbe calcolare il potenziale capital gain da tassare solo quando il bene viene trasferito, non ogni 31/12 di ogni anno. A meno che l’azienda in questione non sia un exchange.
In conclusione, un exchange che ha in pancia i cripto asset dovrà trattarle alla stregua di valute. Sarà obbligato ad aggiornare il valore delle stesse al 31/12 di ogni anno e registrare a conto economico eventuali plusvalenze o minusvalenze. Diversamente, un’azienda che acquista criptovalute per un altro fine, dovrà inserire in bilancio il costo di acquisto delle stesse, senza doverlo aggiornare ogni fine anno. Quando tali beni saranno ceduti, dovrà registrare la plusvalenza o la minusvalenza realizzata; nel primo caso l’azienda subirà la tassazione ordinaria, nel secondo otterrà un costo deducibile dal proprio reddito e, in linea teorica, un risparmio di imposta.
Per qualsiasi approfondimento del proprio caso aziendale, si rimanda agli articoli del Tuir sopracitati; altrimenti vi invitiamo a prendere un appuntamento per cercare di supportarvi al meglio.